La Casa Museo

“Al traballar improvviso del suolo che ci regge che, fra gli infiniti movimenti che ci avvolgono, solo riveste carattere di fermezza, perdiamo in un istante la nostra fiducia”

La Casa Museo Raffaele Bendandi è un luogo speciale, il luogo dove qualcuno ha abitato, conserva le tracce della persona, della cultura e della società in cui è vissuta. La casa diventa casa della memoria perché racconta storie personali e sociali con un linguaggio che appartiene a tutti, è profondamente radicata nel territorio in cui si trova perché fa parte della sua storia, del suo paesaggio, della sua gente: la casa diventa allora una cerniera tra il personaggio che sta dentro e il mondo esterno.

Ingresso

Salendo i gradini della porta d’ingresso, si entra in un lungo corridoio imbiancato a calce, un po’ in pendenza e non più largo di un braccio, sulla cui destra si trovano gli ambienti in cui ha vissuto, lavorato e studiato Raffaele Bendandi; sulla parete di sinistra sono apesi pannelli, testimonianze dei riconoscimenti avuti da Bendandi nell’arco della sua lunga vita, e inoltre una targa in ceramica fa capire immediatamente al visitatore lo spirito faentino.

Biblioteca

Sul corridoio si apre sulla destra una porticina bassa e una stanzina quadrata con le pareti ricoperte fino al soffitto da pile e pile di carte, libri, documenti, fascicoli ingialliti dal tempo.

Lo studio dove Bendandi lavorava — quasi sempre di notte per stare più in pace — è una stanzetta rettangolare, larga circa due metri e lunga tre. Sotto una finestrina polverosa, c’è un vecchio scrittoio; una parete è completamente ricoperta di libri, conservati con quella cura che di solito è tutto l’orgoglio degli autodidatti; su un’altra parete, accanto a un attestato dell’Accademia Torricelliana di Faenza, pende, poveramente incorniciato, un diploma di cavaliere della Corona d’Italia.

In biblioteca si possono ammirare migliaia di volumi acquistati o ricevuti in dono da studiosi che sapevano apprezzare il suo impegno e il suo lavoro.

Volumi di ogni tipologia, a dimostrare quanto ampio, vario, eterogeneo sia stato il campo di interesse dello studioso romagnolo: dai primi interessi sull’astronomia (Bendandi, a costo di grandi sacrifici economici, acquistava i fascicoli che venivano pubblicati periodicamente in edicola scritti da Camillo Flammarion), agli studi di fisica, di matematica e sulla terra.

Fra i testi presenti, alcune piccole gemme testimoniano la voglia di conoscere, di completare quei vuoti che la scuola, che non aveva potuto frequentare per mancanza di disponibilità economica della famiglia, aveva lasciato, del suo desiderio di essere informato prima di pronunciarsi, di conoscere il passato e la storia di chi lo aveva preceduto nello studio di tanti argomenti. La presenza di bollettini provenienti da paesi lontani testimonia che Bendandi era in contatto con quasi tutti gli osservatori del Mondo e da loro riceveva sistematicamente informazioni sulle ricerche e i relativi aggiornamenti.

Osservatorio

Dallo studiolo, freddo come una cantina, nel quale fluttua un vago odore di vecchia carta e di castagne, si passa direttamente a una specie di ripostiglio sensa finestre nel quale sono sistemati gli strumenti che “sentono” i terremoti a distanza di migliaia e migliaia di chilometri: rulli cosparsi di nerofumo, in continuo, silenzioso movimento. Strumenti che Raffaele Bendandi, tornitore, intagliatore e orologiaio, ha costruito da solo, tanto sensibili che basta toccare con un dito una parete di casa per vedere le lancette correre a destra e a sinistra, come impazzite.

Questi strumenti, che oggi rappresentano la storia della strumentazione dell’Osservatorio, sono stati realizzati dopo che Bendandi aveva letto o ascoltato da padre Alfani, direttore dello Ximeniano di Firenze, come si poteva costruire un sismografo. Con le poche nozioni acquisite, si era messo al lavoro e utilizzando le sue competenze come orologiaio, era riuscito a creare una strumentazione che gli permetteva non solo di registrare, ma di individuare dove si era verificato il terremoto e fare poi i comunicati. Tutti gli strumenti di lavoro, dal più semplice al più complicato, uscivano forgiati dalle sue mani nei materiali più economici, di recupero. Il suo primo strumento ebbe addirittura un busti di Seneca, scolpito alla Scuola d’arte, in mancanza di altre masse pesanti, troppo costose per lui.

La mancanza di mezzi e di disponibilità economica ha favorito lo sviluppo della ricerca di risorse alternative che gli permettessero di raggiungere comunque gli obiettivi prefissati.

Dai suoi sismografi, microsismografi, inclinografi Bendandi sapeva trarre gli spunti per osservare, studiare, dedurre. Ogni documento è testimone di una lunga ricerca sperimentale: non era facile a quell’epoca registrare su carta annecita con il nerofumo e riuscire a conservare le prove sperimentali di tanto lavoro.

Usando l’ingegno e quella manualità che lo ha sempre contraddistinto, ha reazzato un “fissaggio” sulla carta utilizzando la materia più fruibile e di minor costo cioè l’albume dell’uovo. Con il semplice mezzo della “chiarata” ci ha lasciato una ricchezza di studi, di registrazioni, di prove tali da permettere al “suo” Osservatorio di diventare nel Duemila un Osservatorio storico nazionale.

L’estrema sensibilità degli strumenti creava non pochi problemi al sismologo faentino, che passava molte notti accanto ai suoi apparecchi per vedere registrato un terremoto da lui previsto, in quanto doveva sottoporre le registrazioni ad analisi accurate per distinguere sui rulli i segni dovuti alle scosse telluriche da quelli di origine diversa.

Bendandi fabbricava da solo i suoi strumenti, accompagnandoli con un apposito volantino e personalizzandoli con la sigla “RABEN”. In Italia le vendite furono veramente scarse, contrariamente all’estero, soprattutto in America dove ne furono venduti in numero rilevante.

Camera/cucina

In quest’ambiente si sviluppava la vita personale, la quotidianità dello studioso faentino: sono esposti gli oggetti da “lavoro”, il goniometro in cartone, Ia macchina da scrivere, la calcolatrice, ma anche la credenza, la radio ancora funzionante, la madia; manca il letto, che era appoggiato alla parete e che completava l’arredamento della stanza.

Nella madia, il contenitore di legno a sponde alte che si usava per impastare il pane casereccio o per custodirvi il lievito, oggi sono conservate le riviste dell’epoca (con articoli o interviste su Bendandi) raccolte dallo studioso: rappresentano la testimonianza di uno spaccato di vita che va dal 1950 al 1579, anno della sua morte. La visione di queste riviste è una prova concreta di come sia cambiata negli anni l’editoria, nelle dimensioni e nella qualità. Il bianco e nero, tipico degli anni Cinquanta, è un tassello veramente squisito di come possa essere interpretata la vita quotidiana.

L’angoliera è un piccolo gioiello della casa: oggi conserva e fa bella mostra di tutti i cliches realizzati da Bendandi per pubblicare, a proprie spese, il suo primo e unico libro edito nel 1931, “Un Principio Fondamentale dell’Universo”.

Sulla parete lo scolapiatti con ancora i suoi oggetti personali, i setacci e sulla tavola un cavallino bianco, un altro campione rimasto a testimoniare l’ingegno associato a una straordinaria manualità. Per mantenersi infatti Bendandi fabbricava giocattoli in legno per una ditta di Faenza: questo lavoro, indispensabile per la sopravvivenza quotidiana, gli permetteva di ritagliarsi il tempo necessario per studiare, creare i suoi strumenti e mantenerli funzionanti e sempre aggiornati.In una cassapanca, che manifesta evidenti segni di usura, sono conservati i ritagli di giornali più importanti e antichi, articoli stranieri. Fra i ritagli conteggiati sono presenti 298 articoli stranieri di testate dell’epoca, che fanno comprendere come la figura di Bendandi fosse nota e apprezzata anche e soprattutto all’estero. Le testate straniere sono 57 e vanno dal Politica di Belgrado del 1928 al Journal de Paris, dal New York Herald Tribune al The Daily Mail.

Cortile

Il lungo corridoio del piano terra di Casa Bendandi arriva direttamente al cortiletto interno: a settembre, una vite fragola ormai centenaria, dà i suoi frutti e una madonnina, posta in una nicchia al fresco della vite, veglia sulla casa. In due angoli, cilindri di cemento testimoniano come Bendandi variasse le masse dei pendoli aggiungendone o togliendone alcuni.

Sostando nel cortile, munito del suo cannocchiale, Raffaele Bendandi guardava il sole e studiava le macchie solari: poteva farlo da qui oltre che dal terrazzo sul tetto, perché i palazzoni che chiudono oggi la visuale allora non c’erano.

Oltre al corridoio e alla cucina, sul cortile si aprono altre due porte: il ripostiglio e i servizi. Da qui inoltre si accede al planetario in cantina e all’Aula Magna al primo piano.

Stellario

Un articolo pubblicato su “Il Piccolo” (11 luglio 1986) così riporta:

“Con la recente tecnica dei colori fluorescenti è possibile fare emergere da un fondo azzurro opaco la visione stereo tridimensionale degli oggetti celesti meglio di quanto possono offrire i più grandi moderni telescopi. Tale è la visione che si presenta al visitatore del suggestivo ambiente seminterrato. È un’ampia volta scintillante di stelle, soli, pianeti, comete ubicate via via. La visione telescopica degli oggetti più avvincenti del cosmo, in preferenza quelli che per la loro singolare dinamica furono al Bendandi oggetti di ammirazione, di studio e di ricerche. Un planetario di un tipo così nuovo ed inconsueto, un’assoluta primizia: ne è autore padre Giovanni Lambertini. Egli si dichiara lieto di onorare così il Bendandi, studioso di una grandezza insospettata per l’incredibile volume di osservazioni e ricerche”.

Il planetario fu inaugurato il 27 giugno 1986, dopo circa due anni di lavoro incessante e disinteressato di padre Lambertini. Il locale nel seminterrato è una tipica e antica cantina con volta a botte in mattoni a vista: oltre allo “stellarium” alle pareti, nelle bacheche, la storia del mondo scientifico dello studioso, dai terremoti alle stelle variabili. Nel centro, le bacheche raccontano la storia della sua vita attraverso cimeli, documenti, testimonianze.

Nella cantina il “Tesla” costruito da padre Lambertini permette di realizzare semplici esperimenti, ma molto significativi per la loro capacità di stimolare curiosità e interesse nei visitatori. Lo strumento in azione in due diversi momenti, cattura gli occhi e suscita emozioni in tutti, adulti e piccini: basta avvicinare una lampada a incandescenza o a basso consumo, tubi al neon o una girandola di metallo e il gioco è fatto.

Da autodidatta, come Bendandi, e seguendo lo spirito di povertà dell’ordine francescano, padre Lambertini ha costruito un mondo “celestiale” con materiale di recupero e di una semplicità disarmante (la scatola che conteneva il Tesla era una cassetta da frutta), ma offrendo uno spettacolo unico nel suo genere.

Aula Magna

In questa sala, posta al primo piano, l’Istituzione Culturale “La Bendandiana” incontra persone, amici di Bendandi e studenti sui temi scientifici più eterogenei. Ben distribuiti, gli exibit servono per spiegare in modo diretto e semplice ma scientificamente corretto, fenomeni naturali sicuramente complicati e non di immediata comprensione. Tutti gli oggetti esposti danno prova di quanto il volontariato, la passione e la gioia di creare con le proprie mani dia risultati sorprendenti e stupefacenti.

Entrando, sulla destra, la “vasca maremoto” permette di spiegare la differenza tra le onde create dal vento, solo superficiali, e le onde di maremoto che coinvolgono tutta la massa d’acqua che è messa in movimento dalla frattura che si genera al di sotto del livello marino nella faglia.

La “faglia” è un modellino per il movimento delle rocce, in cui il mattone si comporta come la crosta terrestre. Sottoponendo a trazione l’elastico a cui è strettamente collegato, all’inizio non si notano effetti, il mattone rimane fermo nella sua posizione: solo quando si supera una certa soglia il mattone scatta in avanti, è in quel momento si crea la frattura nella roccia.

Col “simulatore didattico” (il piccolo paese soggetto al terremoto), le case, costruite a blocchi numerati, cedono e crollano durante le scosse create dai piccoli visitatori (è la loro gioia, ma dopo la distruzione, è obbligatorio procedere alla ricostruzione). È il risultato di lunghe e pazienti ore di lavoro dei volontari dell’Istituzione che, in memoria del ricercatore che rappresentano, mettono in campo manualità, determinazione e capacità di trovare materiale di facile reperibilità e soprattutto di modestissimo costo.

La “lampada al plasma” è riservata alla gioia dei giovani visitatori: è stata inventata da Nikola Tesla e consiste in una palla di vetro chiaro, riempita con una miscela di vari gas e bassa pressione e un elettrodo al suo centro. Dalla sferetta centrale partono un gran numero di scariche elettriche che si muovono sinuosamente verso l’esterno; toccando la superficie del vetro le scariche si assemblano in un unico fulmine che parte dalla sfera centrale fino alla zona del vetro sotto il nostro dito.

Sul tavolo, a sinistra, si trova il generatore di corrente elettrostatica: azionando la manovella si genera una scarica tra i due elettrodi e i filamenti colorati si respingono sollevandosi. Realizzato da Bendandi e “barattato” per due pala di scarpe con un ciabattino faentino, è stato miracolosamente riacquistato ancora funzionante da un amico del sismologo faentino e della scienza, grazie al quale oggi l’oggetto è tornato esattamente lì dov’era nato.

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